"War is over!". "La guerra è finita!". Donald Trump lo ripete a destra e manca, tra gli sguardi perplessi dei giornalisti saliti sull'Air Force One e gli applausi dei deputati israeliani pronti a sbucciarsi le mani durante il discorso alla Knesset. Ma una guerra non si chiude in tre parole. Per quanto potente sia chi le pronuncia. Non a caso le prime difficoltà lo attendono già a Sharm El Sheikh. Lì i Paesi garanti dell'intesa - cioè Stati Uniti, Egitto, Qatar e Turchia - devono non solo firmare l'accordo davanti a delegazioni di tutto il mondo, ma anche fare chiarezza sulla sua attuazione. Compito non facile visto che già la lista degli invitati è un rebus.
Fino a domenica non prevede né una delegazione dell'Anp (Autorità Nazionale Palestinese) né di Israele. E tantomeno quella di Hamas. Insomma un matrimonio senza sposi in cui i "procuratori" - ovvero gli Usa per Israele ed Egitto Qatar e Turchia per Hamas - devono decidere il prosieguo del cammino. I problemi iniziano quando il 90enne presidente dell'Anp Abu Mazen annuncia il proprio arrivo. Una mossa decisa per evitare che i garanti ascoltino solo le richieste dei rivali di Hamas. La presenza di Abu Mazen mette al lavoro gli israeliani che incominciano a chiedersi se sia saggio tenere a casa Benjamin Netanyahu. Un dubbio rafforzato dalle pressioni di Trump che appena giunto in Israele incomincia a pretenderne la presenza per dare più peso al summit. Alla fine dopo smentite e contro-smentite le insistenze di Trump sembrano aver la meglio e le fonti israeliane iniziano a confermare la presenza del premier. La notizia scatena però un altro putiferio. Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, in procinto di atterrare a Sharm, ordina ai piloti del suo aereo di riprendere quota e fa sapere al padrone di casa, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, di non aver alcuna intenzione di farsi vedere in compagnia di Netanyahu. Un vespaio che convince Bibi - già poco interessato a legittimare con la propria presenza gli eventuali accordi di Sharm - a smentire la partecipazione al summit.
L'episodio è sintomatico delle altre nubi pronte addensarsi sulle intese. Visti i rapporti Erdogan-Netanyahu la partecipazione dell'esercito turco alla forza di pace chiamata controllare Gaza appare quanto meno problematica. Anche perché a quel punto Israele si troverebbe a gestire una presenza turca, considerata assai minacciosa, sia lungo i confini della Striscia, sia lungo quelli di una Siria trasformata - dopo la cacciata di Assad - in un protettorato di Ankara. In tutto questo non va sottovalutato il problema della permanenza dell'esercito israeliano sul 53 per cento dei territori di Gaza. Una presenza che né Qatar né Turchia sembrano disposti ad accettare a lungo. L'esercito israeliano è accusato di usare quelle posizioni per armare i clan ribelli della Striscia protagonisti in questi giorni di sanguinose battaglie con Hamas per il controllo del territorio. Una situazione in cui né Qatar né Turchia accetterebbero di procedere con disarmo di Hamas e lasciare la Striscia nelle mani dei clan filo-israeliani distribuiti a macchia di leopardo sul territorio.
Apertissimo resta anche il nodo della liberazione Marwan Barghouti su cui permane il veto di Israele. Per Egitto, Qatar e Turchia la scarcerazione del leader di Fatah è fondamentale per garantire all'Anp un futuro presidente non solo autorevole e popolare, ma anche capace di dialogare con Hamas. Una posizione assolutamente inaccettabile per Israele che vede nel prigioniero Barghouti il personaggio capace di unificare gli schieramenti e riaprire la lotta per uno stato palestinese. Quanto basta per temere che l'accordo messo in piedi a Washington affondi tra le sabbie mediorientali.